LA VITA DI UN ALTRO (estratto) Romanzo
Signori e signore, io non vi conosco e, del resto, non mi importa granché delle vostre vite, di quello che fate, intendo, e di come occupate le vostre tetre giornate; così come, suppongo, a voi interessi poco o nulla di me, di come sto al mondo e di quello che sto facendo qui, in questo momento. Ma diciamo pure che mi serviva un punto di partenza, a cui poter agganciare un diario, che ho deciso di scrivere, tempo addietro, per puro passatempo. La ragione per cui iniziai a scriverlo, a dire il vero – che è all’incirca lo stesso motivo che mi spinge a riprenderlo in mano adesso, parecchio tempo dopo – era la necessità di riportare alla luce una oscura vicenda su cui, ancora oggi, non è stata fatta del tutto chiarezza. A voi fregherà poco o nulla di questa vicenda, ne sono sicuro, e ne avete ben donde. Ma, del resto, se siete qui (e qui significa: se state leggendo tutto questo), un motivo che vi ha spinti a iniziare questo diario – così come io a scriverlo – dovrete pur averlo, no? In ogni modo non è mia intenzione andare alla ricerca del perché siete qui e non altrove: sono fatti vostri e non mi importa. Il motivo, invece, che mi aveva indotto, allora, a iniziarlo, è presto detto: a quel tempo ero arcisicuro di essere stato vittima di uno scambio di neonati, ed ero pienamente convinto che questo fattaccio fosse capitato proprio alla nursery dell’ospedale dove mia madre, senza troppi patemi, mi aveva dato alla luce. Come sia potuto accadere o per mano di chi, verrete a saperlo solo più avanti, se siete interessati a scoprirlo. Sennò, fate come diavolo vi pare, io andrò avanti per la mia strada comunque.
Ebbene, è già venuta l’ora delle presentazioni: sono John Virago; gli occhiali da sole sono di ordinanza, e la mia vita è un autentico show. Di reale nella mia movimentata esistenza – c’è ben poco. Dissimulo, ergo sum: questo è, in buona sostanza, il mio motto.Questo perché la mia vita, proprio come quella di qualunque altro essere umano, è una recita. Non sto esagerando, e ve ne darò subito prova. Per quanto, infatti, possiamo essere persuasi che la nostra esistenza sia votata all’integrità e all’onestà – di menare cioè dritti lungo la retta via – prima o poi ci vediamo sempre costretti a scendere a patti con noi stessi, con i nostri intimi interessi, che in genere non prevedono accordi con il resto dell’umanità. Con questo voglio dire che, per (o pur di) ottenere ciò che desideriamo, e ottenerlo alla svelta, non tarderemo a far ricorso alla menzogna. Accade in tutti i campi, non da ultimo quello personale. Io mento persino a me stesso, e mi gioco un dito che non sono l’unico a farlo.
Qui, però, in questo strano diario, non intendo mentire né a me stesso né al lettore di turno: non apertamente, almeno. Tuttavia non prometterò alcunché. E, a guardar bene, già questa velata promessa di non promettere niente dovrebbe far tremare le vene ai polsi a chi sta scorrendo con lo sguardo queste righe, dato che io, John Virago, non mantengo mai alcun genere di promessa fatta.
E… insomma, è meglio non farsi troppo cattivo sangue di fronte a tanta schiettezza, mi si creda, non ne vale la pena. E spero con tutto il cuore di riuscire a placare l’ira di qualcuno dicendo che non esistono (se sono mai esistiti realmente) più uomini d’onore (neanche tra i malavitosi), ma solo egoisti. L’egoismo ha surclassato e quindi sostituito ogni forma di rispetto; ha calpestato i costumi e le usanze e alla fine si è imposto come unico valore supremo del nostro tempo. Quindi non aspettatevi di trovare persone oneste, ma soltanto persone che fingono di essere tali mentre recitano quella parte del copione in cui è previsto che l’onestà abbia sempre la meglio sulla finzione.
La società, questa società, è un’immensa platea smaniosa di assistere al prossimo spettacolo. In sala c’è chi ride, chi si indigna, chi sbuffa e chi si annoia a morte: ma in realtà tutti aspettano soltanto che arrivi il proprio momento di gloria. Presto toccherà a loro salire su quel palco; e saliranno nella doppia veste di giudicante e giudicato, dando inizio così a un nuovo personalissimo show. Per smascherarli bisognerebbe sistemare uno specchio su quel palcoscenico che è il mondo, in modo che gli spettatori/attori si riflettano e continuino la loro recita anche da quella platea che è la società civile, sì da mostrarli per quello che realmente sono. In ogni modo sarebbe tutta fatica sprecata: gli ipocriti l’avrebbero vinta comunque, essendo i padroni indiscussi del nostro tempo.
Sarò io, dunque, da questo momento in poi, chiunque si creda io sia. Ingegnere? Mi sta bene. Architetto? Anche. Operaio? Perché no! Mi si conferisca un incarico e io sarò capace di dimostrare di essere l’uomo adatto a ricoprirlo. Sono maestro nell’arte di arrangiarmi. Come posso. Dove e quando mi riesce. Io mi ritaglio il mio spazio e in e di quello vivo, con serenità.
Non sono proprietario di case o appartamenti né pago affitti, e non ho mutui ventennali accesi. Ma non si creda che io viva unicamente di espedienti: il tetto di casa mia non è certo un’autostrada sopraelevata. Mi sposto qua e là, di frequente, là dove mi conduce l’occasione. Sono un opportunista (della peggior specie), e me ne vanto. Vivo rincorrendo un ideale: la piena, totale realizzazione di me stesso (come direbbe lo scrittore bistrattato da un libro solo). Questo fa di me un insopportabile e odioso egoista, ne sono consapevole. Ma il mio egoismo non è affatto sbandierato come si pensa. Il fatto è che vivere nella penombra offre molte più opportunità, e questo significa anche sminuirsi, volare bassi e umiliarsi per non svelarsi mai del tutto e non rischiare così di mostrarsi per quello che realmente si è.
Si pensi soltanto che nel mio ultimo curriculum vitae ho mentito per ben sedici volte; dico sedici. In sostanza, per ogni lavoro svolto ne ho come dire… inseriti cinque di fantasia. Del resto nessuno si aspetta di leggere un curriculum in cui non vi sia almeno una qualche innocente bugia, un piccolo arrotondamento per difetto di un periodo lavorativo, un lavoro occasionale fatto passare per un’importante esperienza professionale eccetera eccetera. Il personale che si occupa dei curricula – che li analizza e ne fa una prima scrematura per poi consegnare quelli degni di nota al responsabile delle assunzioni – è piuttosto tollerante e in genere è molto meno fiscale di quanto si pensi. Certo, nessuno immaginerebbe mai che un candidato dichiari intenzionalmente di aver svolto lavori del tipo addetto area software e manutentore congegni informatici di sistemi connessione dati, pensando di farla franca. Tutto ha o, almeno, dovrebbe avere un limite: anche la fantasia.
Non per me, non per John Virago, per il quale non esiste limite alcuno, nemmeno alla decenza. Sono un individuo indecente, e in un certo senso sento di andarne fiero. E, detto per inciso, si sappia che l’integrità morale, la specchiata onestà, la sincerità in quanto tale… tutti questi seppur nobili valori non hanno mai dato da mangiare a qualcuno; semmai hanno ridotto tutti alla schiavitù, a essere trattati come insetti, condannando interi popoli alla perpetua miseria...
Eppure questo curriculum, questa colossale menzogna, ha colto nel segno.
“Mi faccia capire bene”, mi ha chiesto il responsabile delle assunzioni, “cosa intende ‘di preciso’ lei per… addetto area software e manutentore congegni informatici di sistemi connessione dati?”. Evidentemente si era insospettito (segno che ero riuscito a stuzzicare la sua curiosità) da questa voce sul mio curriculum, e chiedeva lumi. O forse si stava banalmente domandando se non si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto. Del resto, poteva essere e l’una e l’altra cosa. E, cioè, non so come ma, nonostante morissi dalla voglia di farmi una grassa risata, riuscii a mantenere una certa aria di pacatezza.
“Proprio quello che c’è scritto”, ho detto sicuro, “né più né meno che quello!”.
Mi ha guardato fisso per un attimo. Poi ha inforcato gli occhialini per presbiti e ha cominciato a rileggere con più attenzione, soffermandosi con l’indice sulle parole ‘addetto’ e ‘manutentore’; dopo di che, probabilmente non capendoci più nulla, si è portato una mano alla testa (semipelata; forse quel maledetto vizio di grattarsi aveva contribuito alla prematura calvizie) sentenziando: “Credo che lei sia più che titolato per questo lavoro”; un secondo dopo era già in piedi con la mano protesa dinanzi a sé: “Benvenuto nella nostra squadra, signor addetto area software e manutentore congegni informatici di sistemi connessione dati” (questa serie di parole senza senso gli era entrata in testa come un assurdo mantra di cui non riusciva più a liberarsi); gli ho stretto la mano con vigore e ho inoltre chiesto: “Quando inizio?”. “Subito”, ha risposto lui. “Mi segua”.
Non sono sposato né mai lo sarò. Sono contrario a questo fatto del matrimonio per una ragione molto semplice: credo che gli esseri umani siano dediti unicamente ai propri interessi personali, quindi è inevitabile che trascurino i rapporti con i propri simili. Ciò che è unito (o viene legato) è fatto per essere separato. Hanno diviso persino l’atomo, figuriamoci due persone.
Non dirò mai ‘sì, lo voglio’ a una donna (oggi, da qualche parte, nel mondo, è possibile dire ‘sì’ anche a una persona dello stesso sesso; il che è paradossale, se ci si pensa bene, perché in una società dove tutti tendono a disarcionarsi dai legami e dalle responsabilità, ci sono signori e signore che, di fatto, vanno controcorrente e si dannano l’anima pur di unirsi nel sacro vincolo del matrimonio. Mah!). Tuttavia ho promesso alla mia ragazza che un giorno ci sposeremo. Quando? La tecnica – vecchia come il cucco, collaudata e sempre funzionante – consiste propriamente nel rimandare all’infinito la fatidica data delle nozze. Molte donne, prese dall’euforia del momento, si lasciano fregare, salvo poi accorgersene in grave ritardo – in genere messe sull’attenti da vecchie comari incapaci di farsi i fatti propri – e mandare all’aria tutto, fidanzamento compreso. Ammetto che far largo uso di questa tecnica meschina è da veri stronzi, ma non è detto che uno la usi soltanto per proprio tornaconto personale; ci sono persone, infatti, biologicamente inadeguate al matrimonio: in questi casi rimandare all’infinito la data del matrimonio non rappresenta affatto un atto di viltà e scorrettezza, ma una forma sui generis di assicurazione.
Io e Claudia (sto usando un nome di fantasia perché temo che si arrabbierebbe ¬– e non poco – se sapesse che la cito in un diario) non viviamo assieme: la nostra è una convivenza a distanza. So che potrebbe sembrare una contraddizione in termini, questa; però, di fatto, le cose stanno proprio così: io vivo qua e là e lei vive là e qua. Ogni tanto capita che io vada da lei; qualche giorno dopo lei contraccambia venendo da me. Riconosco che sia una faticaccia inutile e che entrambi potremmo risparmiarcela andando a vivere insieme. In ogni modo, lo si voglia credere o no, la lontananza giova al nostro rapporto, avvicinandoci paradossalmente ogni giorno sempre di più.
Dunque, sono per metà spagnolo, andaluso (per essere più precisi della provincia di Siviglia) e, per l’altra metà, americano, East Coast, sponda New York. Mio padre, Frasco Virago, era un commerciante di caffè. Dello spagnolo aveva ben poco, nemmeno il cognome, visto che dalle parti di Siviglia era raro quanto il sapore della sua miscela arabica. Era nato in Andalusia, ma ci aveva vissuto talmente poco da ricordare a malapena quei luoghi. Prima ancora che potesse raggiungere l’età scolastica, mio nonno, Juan Virago, decise di trasferire l’intera famiglia in Italia, in un paesino in provincia di Venezia, dove aveva appunto dato avvio alla sua piccola impresa (azienda che, molti anni dopo la morte del mio povero nonno, fu acquisita da mio padre, il quale la portò avanti con la grande passione, anche se con risultati non propriamente eccellenti), acquistando all’asta per pochi soldi una vecchia torrefazione che, negli anni successivi, gli consentì di far vivere in modo dignitoso la moglie e il suo unico figlio: Frasco.
Ecco, mio padre conobbe mia madre proprio a Venezia. Lei, americana, si trovava lì per una ‘trasferta’ di lavoro: come corrispondente del New York Times, infatti, era a caccia di informazioni sul vaticinato affondamento della città. Si stava appunto documentando in una delle molte biblioteche private della laguna, quando per caso fece la conoscenza di mio padre. “Salve”, le disse lui (in italiano), “sa dirmi dove posso trovare il responsabile”, intendendo il bibliotecario, “di questa biblioteca?”. Lei, che masticava pochissimo l’italiano, gli rispose (in inglese) di non aver capito un’acca. Lui sorrise. Non sapeva una parola di inglese, a quei tempi, mio padre, a parte “Hallo”, “Bye”, “Baby”, “Goodmornig”, eccetera eccetera. Lei, notando l’imbarazzo di mio padre, sorrise a sua volta. Poi, Dio solo sa come, iniziarono a comunicare. Come, invece, in seguito si siano avvicinati e presto innamorati non è affar mio, e sinceramente non me ne importa nulla. Quello che mi preme far notare è che la scelta del mio nome non è stata del tutto casuale. Mia madre, Mary Huston (così si chiama), era una grande appassionata del David Letterman Show, tanto che aveva continuato a seguirlo anche sul canale satellitare (che a quei tempi era considerato un lusso per pochi eletti). Quando scoprì di essere incinta, insistette e non poco affinché venissi chiamato come il noto conduttore dello show (non sapeva ancora se portava in grembo un maschietto o una femminuccia, ma non si sa bene come era già convinta sul nome da dargli. Mah!). Frasco, però, si mostrò contrario fin dall’inizio sulla scelta di quel nome, per quanto quel conduttore fosse piuttosto “arguto e intelligente” (parole sue). Le ragioni di questa sua riluttanza, inoltre, andavano ricercate in una promessa strappata proprio in punto di morte da suo padre; promessa che intendeva assolutamente mantenere. “Promettimi, Frasco, che il tuo primo figlio maschio porterà il mio nome”. E lui, non ancora adolescente, colto di sorpresa, sotto gli sguardi perplessi dei famigliari, aveva risposto, balbettante: “Va-va be-ne pa-pà”. Dopo un battibecco durato un paio di settimane (forse si trattò del primo impercettibile scricchiolio del loro matrimonio naufragato trent’anni dopo a causa di una scappatella di mio padre con una giovane brasiliana da poco giunta in paese), mia madre decise di cedere (del resto una promessa fatta al capezzale del nonno negli ultimi istanti della sua vita era qualcosa di ben più rilevante dei capricci di una ragazza viziata, quale era sempre stata mia madre): Mary pretendeva un nome americano, mentre mio padre era fermo su Juan. John parve a tutti e due un ottimo punto d’incontro (per altro mia madre era anche una sostenitrice accanita di un governatore piuttosto famoso che si chiamava proprio così).
– Grazie di avermi reso partecipe di questa pagliacciata.
– Un giorno mi ringrazierai.
– E perché mai dovrei farlo?
– Perché tutto questo un giorno acquisterà un senso.
– Lo spero, perché al momento non ne ha.
– Questo perché osservi le cose da una prospettiva troppo ristretta, come al solito.
– Tu dici? Io non credo.
– Non c’è nulla di strano in quello che abbiamo fatto.
– Ma a che diavolo potrà mai servire, poi, se quello che ci siamo detti non arriverà mai alle orecchie di nessuno?
– Vedi, testone?, anche qui ti sbagli: ho registrato tutto.
– Davvero? Non me ne ero accorto.
– Poi un giorno qualcuno ascolterà e si renderà conto di come sono andate realmente le cose; capisci adesso?
– Cosa c’è da capire, poi.
– Gli addetti al settore comprenderanno.
– Mah, può essere. In ogni modo: io ho fame.
– Sono le cinque e mezza. Come cazzo è possibile che tu abbia già fame?
– Abbiamo mangiato alle undici.
– E poi alle tre, te lo sei scordato?
– Oh, già, ma io ho ancora fame.
– Dovrai aspettare la cena, come tutti.
– Fino alle sette, intendi?
– Sì, fino alle sette. Intanto goditi la registrazione.
– Per carità. Non mi piace riascoltarmi.
– E perché?
– Perché ho una voce orribile.
– Stronzate.
– Dico sul serio: quando esce dalle casse di qualsiasi dispositivo, la mia voce si abbassa di cinque, sei tonalità. Sembro un cavernicolo che parla.
– Sei un cavernicolo. Ti do una preziosa informazione: la tua voce fa schifo sempre, non solo quand’è registrata.
– Non dici per davvero.
– No, no. Sono sincero. Hai una voce terribile.
– Non me ne ero mai reso conto.
– Perché probabilmente hai anche problemi di udito.
– Smettila.
– Non prendertela a male: dicevo così, per dire.
– Mi sono seccato di ascoltati.
– Bene, se non vuoi riascoltare la registrazione, lo farò io.
– Fa’ come ti pare...
Essere un buon ascoltatore fa parte del personaggio che metto in scena ogni qualvolta cerco di fare mia un’informazione – per usarla poi, in un secondo momento, con secondi, torbidi fini, per mio personale tornaconto. E non è forse esattamente quello che fa qualsiasi psicologo con tutti i suoi pazienti quando li sistema su quei sudici e freddi lettini invitandoli a vuotare il sacco? Certo che sì: cerca di carpire, trarre quante più informazioni possibili dal racconto snocciolato dal malcapitato finito sotto le sue grinfie affinché costui dia libero sfogo a tutto ciò che lo turba nel profondo e si metta in questo modo completamente a nudo di fronte a lui, e il tutto con l’unico sordido scopo di rigettargli addosso ogni singola parola pronunciata – nel caso in cui costui tentasse di negare di aver detto proprio quanto ha realmente detto. Il suo lavoro consiste né più né meno che in questo: nello sbattere in faccia ai suoi pazienti ogni più infimo particolare del loro personale racconto portando come prove pagine e pagine di appunti tratti da lunghe conversazioni o parti di registrazioni audio in cui si percepisce, in maniera inequivocabile, ogni singola parola uscita da quelle stesse bocche che ora tentano, in tutti i modi, di negare, vuoi per la vergogna del momento, voi per l’imbarazzo o per lo stato di frustrazione che li attanaglia.
Ho un curioso aneddoto da raccontare a tal proposito.
Una persona che conosco molto bene (non farò il suo nome manco sotto tortura) mi ha confidato, un giorno, di aver spiattellato, per filo e per segno, a uno psicologo di ben nota fama qui in città, tutti i più scabrosi e intimi particolari della sua condotta sessuale. Mezz’ora dopo, calmatosi un po’, ha tentato di ritrattare il racconto fatto poco prima, sostenendo di essersi lasciato trascinare da un momento di sconforto dovuto più che altro a dei contrasti irrisolti con l’ex coniuge; e insomma, ha spiegato – o, almeno, ci ha provato – che molte delle cose che aveva appena raccontato non corrispondevano assolutamente alla realtà dei fatti (così come si erano svolti). Lo psicologo dal principio lo ha guardato con un misto di commiserazione e pena, e subito dopo ha provveduto a premere il tasto play del suo registratore vocale facendogli ascoltare una parte dell’ultima seduta. “Se”, ha poi aggiunto, “molte delle cose che sente le ha dette inconsciamente, be’, sappia che per noi psicanalisti l’inconscio rappresenta la Verità Assoluta”.
Punto.
Una decina di anni fa mi sono finto agente di commercio. Giravo in macchina (o, almeno, si supponeva che girassi) dalla mattina presto fino alle sei, sei e mezza del pomeriggio, attardandomi, talvolta, fino a tarda sera. Convivevo, a quel tempo, con una ragazza molto più giovane di me che mi amava in modo smisurato e, aggiungo io, del tutto ingiustificato. Aveva idealizzato in me – fatico tuttora a comprenderne il perché – una sorta di figura genitoriale mancante, avendo lei per padre uno scapestrato privo del benché minimo senso di responsabilità. Non che io fossi granché diverso dal suo mancante padre; anzi, per certi versi ero molto peggio di lui, visto che non solo ero un irresponsabile di prima fattura, ma addirittura un bugiardo conclamato.
Ma andiamo oltre.
Figura paterna o meno, resta il fatto che Giulia era pazza di me; proprio così: era follemente innamorata di John Virago, e questo era ciò che contava veramente.
Giulia lavorava saltuariamente in una caffetteria. Ricordo che la chiamavano a ogni ora del giorno – mattina o tardo pomeriggio era del tutto indifferente – per una ‘urgenza’: così era solito definirla il titolare del locale. Una ‘urgenza’ poteva significare un sacco di cose; per esempio un inconveniente capitato durante la giornata; un boom di clienti inaspettato; oppure che una delle cameriere in servizio si era assentata per fare delle commissioni o accompagnare i figli a scuola. In tutte queste circostanze, e in una miriade di altre, Giulia, come un vigile del fuoco sempre pronto allo squillo della sirena, rispondeva “okay, arrivo subito”. Io con il mio ‘lavoro’ ero quasi sempre fuori casa e quindi non potevo essere presente quando il titolare del locale la chiamava; tuttavia sapevo che quella era la sua risposta tipo a qualsiasi genere di richiesta di aiuto. Giulia era buona e gentile con tutti e non era capace di dire di no a qualcuno. Quando un essere vivente si trovava in difficoltà e le chiedeva aiuto, lei mollava tutto quello che stava facendo e correva a soccorrerlo, neanche avesse dovuto salvarlo da morte certa. In fin dei conti si trattava soltanto di servire cappuccini e brioche a vecchie decrepite dalla lingua lunga e biforcuta che non perdevano tempo a umiliarla e a far presente al titolare quanto fosse lenta, distratta e maldestra nel suo lavoro. Di statura assai bassa, esile e mingherlina, Giulia guizzava fra un tavolo e l’altro, e posso – senza tema di essere smentito – garantire che faceva ogni cosa con tale rapidità e sveltezza da lasciarti a bocca aperta. Io l’ho vista in azione un paio di volte; e devo dire che raramente mi è capitato di vedere una cameriera tanto solerte, attenta, precisa e gentile come lei. Era evidente che quelle vecchie carampane si divertivano a infastidirla e a punzecchiarla senza alcun motivo, a darle della maldestra, a dirle di muoversi (era una saetta!) e a prenderla in giro ogni volta che passava vicino al loro tavolo. “Okay signore!”, diceva lei con un vivo sorriso sulle labbra e sgambettando velocemente, “sono da voi tra un attimo”. E in effetti trascorreva proprio un istante dal momento in cui pronunciava queste parole, al momento in cui, dopo aver riordinato gli altri tavoli, tornava da loro. Ebbene, una domanda che mi sono posto un fracco di volte e alla quale, a distanza di anni, non sono ancora riuscito a dare una risposta esauriente, è questa: per quale assurdo motivo quella testa di latta del proprietario non si decideva ad assumerla a tempo pieno? Perché seguitava a chiamarla a gettone, pagandola con i Voucher quando era più che evidente che svolgeva il lavoro per tre? Che cosa lo frenava? Forse l’opinione di quelle quattro vecchie baldracche? Sarebbe stato anche nel suo interesse, no?, assumerla; avrebbe potuto cacciare a calci nel sedere quella sfaticata che si assentava di continuo, e che spesso era la causa delle famose “urgenze”, e fare un regolare contratto a Giulia, ché se lo meritava più di chiunque altro al mondo. Invece no: le cose nel lavoro vanno sempre alla rovescia: i più incapaci, immeritevoli imbecilli e fannulloni vengono continuamente premiati, ovunque, in qualsiasi ambito, dal Primo Ministro al lavapiatti.
Ma anche io non ero migliore di loro. Infatti mi prendevo gioco di lei. Tutti i giorni.
Come dicevo, partivo di buon mattino; ovviamente non prima di averle stampato un dolce bacio sulla fronte rassicurandola sul fatto che avrei guidato con prudenza. Lei temeva sempre che potesse capitarmi qualcosa di terribile; tipo un incidente stradale con multi-tamponamento, un frontale con un enorme TIR, un sorpasso azzardato che avrebbe causato una mia uscita dalla carreggiata, magari agevolata dall’asfalto sdrucciolevole; o che una violenta tempesta si abbattesse proprio sul tratto di strada che stavo percorrendo; per non parlare del suo atavico terrore per i temporali, le trombe d’aria, i tifoni... Sembrava sempre che dovessi partire per chissà quale missione ad alto rischio, che nel mio presunto lavoro vi fossero più pericoli che in qualsiasi altro, compreso quello dei soldati sul fronte di guerra. Io cercavo in tutti i modi di tranquillizzarla, e quel bacino sulla fronte, datole prima di uscire di casa, era il mio modo di rasserenarla, di farle capire che poteva continuare a dormire tranquilla, senza preoccuparsi per me, di dove sarei andato, di quanta strada avrei fatto, con quale condizione atmosferica avrei guidato eccetera... Di non stare in pena, appunto, per quel bastardo che si stava allacciando le scarpe e intanto progettava di trascorrere l’intera giornata a zonzo, senza fare altro che bighellonare, passando gran parte del tempo tanto nei bar della zona quanto ai circoli sportivi e ricreativi dove si fermava per giocare a carte in compagnia di alcuni disoccupati cronici – sempre in bolletta, veterocomunisti, o, anche loro, finti tali, tutti iscritti al sindacato (che ormai se ne strafregava di gente come loro da anni) – oppure assieme a personaggi di spicco, o quantomeno supposti tali. Era tutta una messinscena, un organizzatissimo show in cui ognuno recitava con sapienza la propria misera parte, cercando di cavarsela al meglio. “Sto aspettando un posto da direttore di museo”, era solito ripetere ormai da dieci anni un tizio lì al circolo. E tutti, attorno al tavolo, subito ad assecondarlo. “Ormai è questione di giorni, e si libererà”, continuava. Ma i giorni intanto passavano, inesorabilmente, e le settimane pure e così i mesi e del lavoro non v’era traccia. Ma il ritornello si ripresentava, puntualmente, il giorno successivo: “Sto ancora aspettando...”. Il personaggio in cerca d’autore che stava presentando alla platea era il classico sfaticato buono a nulla, sognatore, che si può sintetizzare in una parola soltanto: fallito. “E togliti quei dannati occhiali”, mi diceva ogni tanto, “mica stiamo giocando a poker. A cosa ti servono gli occhiali; hai qualcosa da nascondere, forse?”. Dunque, porto gli occhiali da sole anche di notte; l’ho già detto, e lo ripeto: le lenti scure sono, per me, d’ordinanza, quindi tassative; li levo di rado, visto che non sopporto il chiarore del giorno e di notte le luci artificiali mi procurano un fastidioso bruciore agli occhi. Non ho niente da nascondere, essendo io un bugiardo patentato che non prova la minima vergogna di sé. Per di più non sono un baro, sebbene io sia abile nel fingere; in ogni modo i miei occhi non mi tradirebbero mai; perciò se porto gli occhiali scuri non è certo per impedire agli altri di guardarmi negli occhi; lo ripeto: non temo né mi preoccupo che un mio sguardo possa rivelare chi sono veramente, perché esso è fermo, inespressivo, vacuo. Lo sguardo non parla, non rileva niente: queste sono tutte sciocchezze, fantasticherie, credenze da idioti i quali si sono fatti infinocchiare da presunti poeti che parlano degli occhi come… ‘specchio dell’anima’. Fandonie, queste sì!, bell’e buone! Non esiste specchio di nessun genere per la semplice ragione che non esiste anima alcuna! E, ponendo pure il caso che dovesse esisterne realmente una, mi farei beffa anche d’essa, statene certi! Magari può anche tornare utile a qualcuno – credere di averne una; di sicuro non a me, che mi metto una maschera nuova ogni giorno ed esco là fuori, nel mondo, tra voi, fingendo e dissimulando e dando l’impressione di essere un’altra persona, e cioè un’altra maschera ancora e così via. E dai!, ammettiamolo: siamo tutti, nessuno escluso, personaggi mascherati da qualcun altro, ladri di identità altrui, qualcuno che siamo e non siamo, giorno dopo giorno, fino alla nostra morte. Io, per esempio, sono colui che avrei voluto e dovuto essere, cioè quell’uomo mascherato di cui, ahimè!, non conosco nemmeno la faccia! Che non mi si venga a parlare di coscienza, allora!, quando è più che evidente che l’essere umano è soltanto un grande imbroglio, una sofisticata macchina creata per fingere e mascherarsi! “Razza di imbecille”, gli rispondevo allora io, “tu pensi che io voglia imbrogliarti, che dietro questi occhiali ci sia qualcuno che non conosci, qualcuno da temere? Ma se nemmeno mi conosci; non sai da dove vengo, chi sono, perché bevo a questo tavolo con tutti voi... E intanto ti preoccupi dei miei occhiali da sole, ti preoccupi di sapere cosa c’è dietro, quando dietro non c’è che quel niente che credi di conoscere. Gioca e taci!, mammalucco”.
“Sarai stanco morto”, mi diceva premurosa Giulia non appena facevo scattare la serratura di casa. “Quanta strada hai fatto amore?”. Questa era, seguendo il suo rituale, la seconda domanda. La terza, era, ovviamente: “Hai fame? Cosa ti preparo di buono?”. Io la guardavo in modo assente, abbassando lo sguardo e sbuffando, come avevo visto fare un milione di volte a lei, quando rincasava più tardi del solito esausta e con l’emicrania martellante. La imitavo, sì: lei era il mio copione, la pagina in vista che preferivo, quella che potevo leggere da parte a parte e che conoscevo alla perfezione. Ma, non essendo stanco e, men che meno, affamato (eravamo soliti stuzzicare dei salatini, tra una partita e l’altra), oltre che pesantemente alterato dall’alcol (per lo più vino rosso sfuso, servito in caraffe da litro, che lì al circolo vuotavamo in un attimo, mentre Gianni – un taccagno squattrinato con il portafoglio incollato al culo – ordinava a raffica, colmandoci i bicchieri fino all’orlo. Questo accadeva quando ci davamo appuntamento al bar Centrale. Mentre lì al circolo eravamo soliti servirci da soli nel retro del minibar dove il vino si trovava in grosse damigiane spelacchiate), calarmi nella parte dell’agente di commercio sfiancato dalla tormentata giornata lavorativa a causa dei chilometri percorsi a vuoto, dei clienti con cui trattare, delle vendite non andate a buon fine, delle seccature varie con le aziende, e con di più il traffico asfissiante... insomma, tutta quell’infinita gamma di scocciature che possono capitare soltanto a chi passa gran parte della giornata in macchina guidando e macinando chilometri a non finire... tutto questo cominciava a diventare ogni giorno sempre più difficile da affrontare, e la qualità della recita aveva cominciato inevitabilmente a risentirne. Piano piano, senza rendermene conto, stavo lentamente uscendo dal personaggio, e questo per me avrebbe rappresentato la fine.
Stavo per crollare. Lo sentivo. Ma dovevo tenere duro, resistere. Resistere. Resistere.
E ancora resistere.
Non sono del tutto sicuro che la sorte si accanisca contro le canaglie e i farabutti; per quanto questi vengano maledetti, pare non esista entità ultraterrena che riesca in qualche modo a punirli come meriterebbero; la fanno quasi sempre franca, e in certi casi raddoppiano pure, raccogliendo il frutto delle proprie angherie. È più o meno quello che è capitato a me, in uno di quei giorni senza senso e senza speranza in cui mi trovavo a girovagare cercando di ammazzare il tempo. È difficile a spiegarsi, ma poi neanche tanto, considerando la totale assenza di qualsiasi essere soprannaturale (Superman compreso) pronto a intervenire per ristabilire l’equilibrio dell’Universo (è suppergiù quello che viene definito Karma, o Divina Provvidenza, ma anche: compimento del Destino; in buona sostanza, però, il senso sarebbe: a ogni negativo corrisponde un positivo – così come è ben raffigurato nel simbolo cinese, lo Yin e lo Yang – che, nella fisica quantistica, starebbe ad indicare il principio di autoconservazione del Tutto). Ora, la notizia da annotarsi è questa: il suddetto Tutto o Universo, che dir si voglia, non sottostà ad alcuna legge di tipo morale né è sostenuto da equilibrio alcuno. Difatti – come stavo dicendo prima di perdermi in divagazioni di bassa lega – sembra proprio che questo Karma abbia davvero fatto cilecca, con me, dato che, quel giorno, ho avuto la conferma che, più in basso riuscivo a scendere, e cioè più mi comportavo in modo infimo e gretto, di contro maggiori erano i premi che il destino aveva in serbo per me: si trattava di un cortocircuito atemporale, una specie di panacea all’incontrario: il male produceva bene e dal bene scaturiva il male.
Il racconto, innanzitutto.
Mi ero fermato per mettere gasolio nella mac¬china. In tasca avevo la miseria di ventidue euro, e cioè quello che mi era rimasto di un prestito che avevo richiesto alcuni mesi prima (in tutto erano seimila euro). E siccome pagavo le rate del finanziamento (si chiama così adesso) con i soldi del finanziamento stesso (sì, è un po’ come se uno, temendo di morire di fame, iniziasse a mangiucchiarsi le falangi, passando poi rapida¬mente alle mani, gli avambracci e così via, fino a ‘estinguersi’ totalmente e quindi, di fatto, autoe-liminandosi da solo, divorandosi) – inoltre do¬vevo pur pagare quel cazzo di affitto e tutte le spese collegate al mantenimento dell’appartamento stesso (cifra: spese condominiali); e, se ancora non basta, mettiamoci pure quella merda di auto con cui mi muovevo; tralasciando, poi, volutamente, tutte le uscite non previste che, per altro, rappresentavano il grosso del mio scialacquare quotidiano – insomma, va da sé che mi andava bene se arrivavo alla fine del mese con venti euro stringati. Insomma, per farla breve: avevo questi ventidue euro nel portafoglio e mi appre¬stavo a farne dieci di gasolio, conservandone saggiamente dodici per il resto della settimana. Ed è qui, tenetevi forte!, in questo esatto mo¬mento, che John Virago ha fatto saltare fuori il famigerato coniglio dal cilindro! Infatti, una volta entrato nel piccolo shop della stazione di servi¬zio, mi sono lasciato tentare dai gratta-e-vinci. “Me ne dia uno da due euro”, ho detto all’addetto alla cassa. “Quale preferisce?”, mi ha chiesto indicandomi le strisce di cartoncino pen¬zolanti. “Quello va benissimo”, ho detto ve¬dendo che ne stava indicando uno. “Buona for¬tuna”, ha poi aggiunto lui porgendomelo. “E si ricordi di me caso mai dovesse vincere”, striz¬zandomi l’occhio con fare amichevole. Ho sor¬riso, pagato e promesso: “Ci conti, sarà fatto!”, e sono uscito. Un attimo dopo ero già seduto in macchina a cercare una monetina. Una volta tro¬vatane una nel vano porta oggetti, ho cominciato a grattare speranzoso. Era uno di quei gratta-e-vinci in cui basta trovare lo stesso numero fra quelli vincenti per aggiudicarsi l’importo corri¬spondente. Inoltre c’era il numero bonus, che permette di raddoppiare l’importo. Il numero bonus era il venti, e fra i miei numeri, grattandone uno per volta, ho trovato proprio il venti. Dunque ho grattato nella zona che nascondeva l’importo e ho controllato quanto avevo vinto. Ebbene, credo di aver letto la cifra almeno una decina di volte, se non di più, facendo attenzione ai decimali, perché pensavo di essermi sbagliato. No, non era un sogno: si trattava di una magia! Incredibile! John Virago aveva colpito ancora. Diecimila euro che, raddoppiati, facevano venti. C’è stato un attimo, non più di una frazione di secondo, in cui ho pensato di proiettarmi dentro lo shop per abbracciare e baciare i piedi all’addetto che mi aveva strappato il gratta-e-vinci. Avrei voluto ringraziarlo, di cuore, per quello che aveva fatto per me, anche se inconsapevolmente: per avermi aiutato, anzi, di più, tirato fuori dai guai, insomma. Ma, come ho detto, si è trattato di un attimo di euforia, una scarica di adrenalina che mi ha pervaso il cervello, forse, o un improvviso picco di serotonina, non so; so solo che qualche secondo dopo era già ritornato in me. Non potevo farlo, no!, non potevo tornare dentro e metterlo al corrente della mia vincita sbalorditiva; e non potevo farlo perché, in primo luogo, non volevo rinunciare a un solo centesimo vinto e, in secondo luogo, perché non avrei potuto ricompensare in alcun modo quel signore, data la mia carenza di contanti in quel momento. No, quell’uomo non avrebbe ricevuto un centesimo da me, e questo nonostante avessi promesso di ricordarmi di lui in caso di una vincita. Dopotutto non aveva fatto altro che staccare un gratta-e-vinci; cosa che avrebbe potuto fare chiunque altro al posto suo, persino io stesso, se solo me lo avesse permesso. No, quell’uomo non aveva fatto nulla di eccezionale, nulla per cui dovessi sentirmi in debito nei suoi confronti. Così ho avviato la macchina e ingranato la prima. Due minuti dopo ero già a distanza di sicurezza dalla stazione di servizio (e dalla tentazione di ripensarci). Già, il Karma aveva proprio fallito, mancato il bersaglio grosso. Probabilmente era andato a colpire qualcun altro già gravato da altre pesanti disgrazie, ma non me: la fortuna era corsa in mio soccorso anche questa volta. Aut-Aut: o questo o quello, tutto si compie in un attimo. La scelta è stata decisiva.
Ora avevo in tasca l’equivalente di un intero anno di lavoro, e già pregustavo il momento in cui, trionfante e carico di orgoglio, avrei esibito l’estratto conto bancario a Giulia, dandole prova che era valsa la pena fare tutta quella strada, rischiare la vita sulla Statale, sfidare le intemperie, sorbirsi le lamentele dei clienti, passando tutto quel tempo fuori casa. Questo mi proponevo di fare, mentre mi dirigevo verso l’istituto di credito più vicino (ovviamente stavo fantasticando come al solito, poiché sapevo che non avrei mai potuto mostrare l’estratto conto a Giulia senza inocularle qualche sospetto. Dovevo agire in modo diverso, insomma, analizzando la situazione; la cosa migliore da fare restava, comunque, lasciare tutto com’era, senza fingere che quei soldi fossero il risultato del mio ‘duro’ lavoro. Non era stupida. Mi avrebbe sicuramente sgamato in quattro e quattr’otto).
Fatto sta che tutta quella bisboccia aveva iniziato a farsi sentire: tanto nel fisico, quanto nella psiche. Mi sentivo debole, giù di corda, abbattuto, per certi versi persino avvilito. Cominciavo a temere che, da un momento all’altro, quella belva assetata di felicità – dalla quale mi ero sempre tenuto alla larga grazie al mio inguaribile ottimismo – potesse avventarsi su di me e farmi a pezzi succhiando ogni mia certezza fino alle midolla. Non ero depresso, no, quello probabilmente no, ma debilitato: le giornate passate a ubriacarmi in compagnia di quei perdenti pian piano mi stavano distruggendo. Inoltre Giulia aveva cominciato a intuire che qualcosa non andava; aveva notato che, a tavola, mi tremavano le mani. “Tutto a posto, amore?”, domandava sempre più preoccupata. “Sì, perché?”, rispondevo apparentemente tranquillo io. “Vedo che ti tremano le mani... Sei nervoso più del solito, in questi giorni?”. A questa domanda ero solito rispondere con un’alzata di spalle, e la questione finiva là. Del resto era normale che non fosse interessata ad approfondire l’argomento. Penso temesse di scoprire un lato, finora latente, di me, che avrebbe potuto sconvolgerla. Giulia viveva una vita ‘semplice’, di routine, una vita che io definisco… nella ‘norma’. È naturale che tutto ciò che non rientrava in questa ‘normalità’ lei lo bollasse immediatamente come sbagliato, pericoloso, da evitare in quanto “non conforme alle regole del quieto vivere”, come diceva spesso. Ed è per questo motivo – e cioè alla luce di queste sue vedute – che c’è da domandarsi: che cosa ci faceva una canaglia come me assieme a una ragazza tanto speciale? Come era possibile, dunque, che mi amasse, che arrivasse addirittura a progettare un futuro insieme, partendo dal una prospettiva comune se di comune non c’era un tubo di niente tranne forse il fatto che io facevo sembrare tutto incredibilmente ‘normale’ come lei si aspettava? Lei era ormai a un passo dallo svelare l’arcano, e molto probabilmente dentro di sé aveva già realizzato tutto; ma mi amava troppo e in modo troppo irrazionale e sconsiderato per non lasciarsi intrappolare in una ragnatela di domande inconsciamente rimosse, come quando uno commette un atto atroce e dopo due minuti si scorda completamente di averlo compiuto. Certo, potevo recitare, proseguire con il mio show, ma ero del tutto impotente di fronte allo spettro dell’alcolismo. Non mi restava altra scelta – arrivato a quel punto – che affidarmi alle cure di un professionista, di uno psichiatra che riuscisse nell’impresa condurmi fuori da quel tunnel buio e senza uscita in cui mi ero ottusamente ficcato. Ora stava iniziando un altro show, per me, uno show completamente diverso, ricco di effetti speciali. Naturalmente, per evitare a Giulia questa spiacevole situazione, dovetti ricorrere ancora una volta alla menzogna; che, questa volta, fu, come si dice, a fin di bene. In ogni modo, nonostante mi fossi sempre comportato in modo disdicevole con Giulia, non avevo mai fatto nulla per farla sentire infelice; anzi, riflettendoci sopra, anche fingere di lavorare era una messinscena volta unicamente a renderla felice, a farla sentire protetta, tranquilla, al sicuro in un impenetrabile limbo di ‘normalità’, cosa alla quale lei dava un peso e un’importanza fuori dal comune.
Presa la decisione, da quel momento in poi avrei dovuto nascondere i medicinali (un sacco di pastiglie e compresse tra stabilizzatori neurologici, antidepressivi e vitamine D e B, oltre al Valium) per attenuare il tremore alle mani e rimettere in sesto il dissestato sistema nervoso centrale. Non dico che sia stata impresa facile; tuttavia dopo mesi di cure, sedute psicologiche, incontri e trattamenti, ce l’ho fatta. Tra l’altro, frequentare quel gruppo per ex-alcolisti mi aveva permesso di tenermi alla larga da quel branco di cialtroni e buoni a nulla lì al circolo e al bar Centrale.
Ed è stato verso la fine di quell’anno, ormai definitivamente guarito e lontano dal correre il rischio di ricaderci, che decisi di comunicare a Giulia la mia decisione: era meglio, per entrambi, separarci per un po’ di tempo (rimasi sul vago riguardo le tempistiche), mentendole per l’ultima e definitiva volta; tirai infatti in ballo la differenza di età (che non c’entrava nulla e non aveva mai rappresentato alcun tipo di problema), la mia scarsa attitudine a vivere per periodi di tempo relativamente lunghi sotto lo stesso tetto con la stessa persona, il mio immancabile bisogno di libertà e di autonomia... John Virago stava cercando di pararsi il culo, un’altra volta, insomma; cercava di salvare la faccia, il salvabile, dissimulando come sempre, giusto per non dover ammettere di essere un meschino bugiardo. Giulia, manco a dirlo, non la prese affatto bene; si sentì tradita, messa da parte, usata, sfruttata, esattamente come erano soliti fare tutti con lei, anche al lavoro. Mi amava, diceva in lacrime, ma certo non poteva costringermi ad amarla (sempre che io l’avessi mai amata veramente; anche questo dubbio aveva incominciato a insinuarsi in lei). Infine se ne andò, apparentemente senza batter ciglio (la porta, invece, la sbatté, e piuttosto forte, a quanto ricordo).
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