CINQUEMILAPAROLE (30 pagine) Romanzo

 NOTA INTRODUTTIVA


Questa vicenda è narrata da un tizio: un Pinco Pallino qualsiasi il cui nome resta tuttora ignoto. Perciò ogni cosa che dice, pensa, espone, mostra e tutti i nomi e le persone che nomina e i luoghi che cita corrispondono a pura fantasia e non sono attribuibili, in alcun modo, alla vita e alla storia dell’autore.


* * *


Se da qualche parte bisogna pur cominciare è meglio non iniziare da qualcosa di cui si sa poco o nulla o che si conosce a malapena, ed è così che dirò che, circa venticinque anni fa, mi trovavo esattamente da qualche a parte, seduto non so dove e a fare che, a cercare un inizio per il mio nuovo romanzo, senza sapere che cosa fosse propriamente un romanzo, e anzi fregandomene proprio di saperlo (tanto non mi pagava nessuno per scriverlo quel romanzo), perché mica ero uno scrittore e anche se lo fossi stato non avrei certo reclamato alcun compenso per scriverlo, e, adesso che ci penso meglio, sarebbe stato anche interessante venire pagati per farlo, se avessi saputo come si scrive, e allora mi sono messo a pensare a un inizio, un inizio qualsiasi, perché, appunto, da qualche parte bisogna pur iniziare, mi sono detto allora, solo che non sapevo proprio da che parte cominciare né che senso avesse iniziare a scrivere proprio un romanzo, e così mi sono rannicchiato sul marciapiede, ricordo, che era freddo e sporco e impolverato e la gente mica capiva che cavolo stavo facendo lì a terra raggomitolato su quel cazzo di marciapiede, ma a me importava ben poco di quello che pensava la gente, allora, ricordo e neanche adesso anche se forse adesso un po’ di più m’importa, devo essere onesto ma allora, allora volevo scrivere qualcosa ma non avevo nessuna idea di cosa scrivere e così avevo cercato di guardarmi attorno, ma attorno vedevo solo cose che non avrebbero meritato alcuna descrizione; del resto, se esistevano, quelle cose, e tutti potevano vederle, che senso avrebbe mai avuto descriverle? E poi: era quello un inizio?

Macché! Non mi veniva in mente niente, è questa la verità, come non mi frulla in testa nulla adesso, perché io sono sempre lo stesso, solo con una certa età, con la mia età, e adesso che ci ripenso… allora forse neanche ci facevo troppo caso all’età, anche se molti pensavano che fossi un diciottenne, quando ormai andavo per i ventidue, e sapevo, questo sì che lo sapevo, che a ventidue anni uno doveva essere già uno scrittore bell’e che finito, ma non era quello il mio caso, perché io stavo soltanto imparando ad esserlo, uno scrittore, mica pensavo di esserlo già, infatti non sapevo neanche da che parte cominciare, col mio romanzo, e non a caso non riuscivo a farmi venire un’idea per incominciarne uno, e così mi ero arreso, davvero, arreso, e avevo cominciato a prendermi a pugni in testa, finché non mi si era avvicinato un signore, mentre me ne stavo raggrumato a terra a picchiarmi la crapa, e mi aveva chiesto cosa c’era che non andava, se mi sentivo bene, ma io non avevo neanche le forze per rispondergli né mi andava di replicare, però avevo pensato che forse il mio romanzo poteva incominciare proprio da lui, da quel signor X di cui non mi importava niente, ma era lì, a portata di mano, e allora, a quel punto, mi ero detto: se riesco a scrivere cinquemila parole al giorno, come si era autoimposto Jack Kerouac, allora, allora anche io, già, anche io potrei sperare di scrivere un libro, un libro vero, mica robetta da dilettanti: cinquemila parole, una dietro l’altra, fanno circa dieci paginette, e dieci paginette al giorno fanno trecento pagine al mese, un libro, un bel volumetto, anche corposo, e così, e così anch’io dopo potrò andarmene in giro a dire di essere diventato uno scrittore(questo pensavo allora);avrei dovuto badare alla forma, certo, e quella ancora mi mancava, ero alla ricerca di un mio stile, qualcosa che mi contraddistinguesse, e poi non dovevo dimenticare il contenuto, quello era importante, anche se a me non veniva proprio in mente niente, quanto a ciò che avrei dovuto raccontare, e così avevo pensato che, forse, la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di iniziare da me stesso, sì, di cominciare a raccontare di me stesso, di quello che ero e di cosa stavo facendo su quel marciapiede sporco, per esempio, e perché mi fossi messo in testa di scrivere proprio un romanzo, senza sapere nemmeno da che parte si inizia a scrivere un romanzo, ma sognando soltanto di poterlo fare, come aveva sognato Jack Kerouac, in quelle lunghe notti di delirio e di ebbrezza; tuttavia non c’era nessunissima fottuta ragione al mondo per cui uno avrebbe dovuto scegliere di fare lo scrittore invece dell’operatore informatico o, meglio ancora, il macellaio o il ferrotranviere, nessuna, anzi, nessunissima, appunto, perché solo a un idiota totale poteva interessare una lunga carriera di fallimenti, di “le faremo sapere”, di “uhmm, questo è buono, ma non è il momento”, di schiaffi in faccia, di pernacchie, di miseria, di tormenti e… e che altro, no basta, è già abbastanza, però io sentivo proprio così, cioè non è che mi sentissi proprio un idiota o cose del genere, ma avevo la sensazione che avrei dovuto fare qualcosa per provare a rovinarmi il futuro in qualche modo, e allora la carriera di scrittore mi sembrava perfetta, calzava a pennello, era fatta su misura per me, difatti vivevo alla giornata, ero sempre mezzo ubriaco e non avevo una ragazza, e nemmeno una puttana, nessuna, perché nessuna voleva stare o andare in giro con uno che aveva scelto di fare lo scrittore, al massimo potevano tirarlo in ballo quando scopavano con qualcun altro, tipo “ehi, sai quell’idiota che si è messo in testa di diventare uno scrittore?”, “chi?”, “quello che passa i pomeriggi sul marciapiede di fronte alla biblioteca, dai”, “ah, okay”, mentre ci dà dentro, “ebbene?”, “be’, ho fatto una scommessa con un’amica”, “oh, bene, ugt, ugt”, divaricandole le gambe, “e insomma voglio provare a vedere se riesco a farglielo rizzare”, ma io quella l’avevo vista soltanto una volta o, per essere più precisi, dovevo andare a casa sua o, meglio ancora, avevo trovato il suo numero su Escort Advisor e avevo anche visto le sue foto, tutte palesemente false, di lei tutta costretta dentro una guêpière tinta rosa pesco, fisico esplosivo, roba forte e insomma mi aveva attizzato, e parecchio, e così l’avevo chiamata e lei mi aveva risposto che potevo passare a trovarla anche subito, ma io non potevo subito, perché non ero ancora preparato, nel senso, cioè, uno potrebbe domandarsi “preparato a cosa?”, eh, a scopare, perché non avevo mai scopato, prima, con nessuna, e non sapevo come si infilava il pene in una vagina, anche se ne avevo già vista una, due anni prima, a malapena coperta da un micro bikini, in spiaggia, nella riviera romagnola, ma qua si stava parlando di un atto meccanico, di un su e giù, di capire la dinamica del sesso, di come approcciare il membro alla vulva carnosa (quella che avevo visto in spiaggia era rasata e gonfia, e lì per lì non avevo capito perché quella ragazza dal viso dolce ci tenesse tanto a mostrarla a tutti, tanto che non c’era occhio di maschio che non fosse puntato verso tutta quell’abbondanza) e così il subito è diventato tra un po’, tra un po’, domani, e domani dopodomani e via dicendo, perché avevo fifa, fifa della figa, me la facevo sotto, sì, dalla paura di ritrovarmela davanti al naso o al cazzo, che per me era lo stesso, e quindi, quindi la tipa, scoperto chi ero, aveva preso a coglionarmi con tutti, finché appunto anche lo sputtanamento aveva cominciato ad annoiarla, come credo tutti i cazzi che aveva provato e di cui non era mai sazia, e allora adesso si era messa in testa questa cosa, sì, di farlo rizzare allo scrittore idiota, e aveva scommesso non so che cosa con un’amica, penso due settimane di castità se non fosse riuscita nell’impresa prima di quell’estate, cosa che non le era riuscita affatto, ma mi sa che non aveva mantenuto la scommessa, data la sua più che acclarata ninfomania;

 sicché in famiglia qualcuno accolse la notizia come una lenta e dolorosa pugnalata al cuore: scrittore = fallito era un’analogia fin troppo facile da scovare anche per persone con uno scarso livello di istruzione, quali per altro erano gran parte dei miei familiari, più stretti e non, e allora non mi restava che fare spallucce, continuare ad attaccarmi alla bottiglia e provare a dimostrare a tutti loro che si sbagliavano di grosso, sul mio conto, che non sapevano con chi avevano a che fare, o a chi si trovavano di fronte, e così avevo cominciato a darmi arie da intellettuale, soprattutto al bar, perché altri posti non frequentavo, oltre alla biblioteca comunale, dove entravo e uscivo di continuo, perché non sopportavo gli studenti, soprattutto quelli che mi indicavano con il dito ogni volta che mi aggiravo tra gli scaffali di ferro con le mensole imbullonate alla bell’e meglio e mezze arrugginite per via dell’alto livello di umidità presente nelle sale, e perciò ero diventato come una specie di zimbello, lì al paese, e tutti avevano preso a chiamarmi Oz, come il mago, non so perché, forse per il mio soprabito nero, lungo fino ai piedi, che mi aveva regalato un tizio, anni prima, non ricordo nemmeno più in quale circostanza, dato che molto probabilmente ero ubriaco marcio, come del resto era mia abitudine, dacché non mi restava che bere, mi dicevo, bere e scrivere, ma scrivere non mi riusciva, e non avevo nemmeno con me carta e penna, per questo ogni volta ero costretto a fregare i fogli a4 dai cassetti della fotocopiatrice, finché un bel giorno uno dei bibliotecari (erano tre e non ho mai capito quali compiti avessero, ma era lo Stato, anzi il Comune, a pagarli, e quando non è qualcuno a pagarti direttamente ma ti mantiene la società civile, allora è inutile farsi tante domande, è tutto normale, anzi più assurdo è più normale è) non mi ha sgamato e mi ha cacciato da lì e così avevo passato tutto il mese successivo, a bella posta, sugli scalini della biblioteca, o sul marciapiede antistante, seduto per terra, a bere birra e guardare la gente che passava, cercando di schivarmi e…

E comunque una cosa l’avevo capita, facendo lo scrittore, o provando a farlo, e cioè che tutti detestano gli scrittori, e in generale chi scrive, perché pensano che scrivere sia una grossa perdita di tempo e un inutile spreco di energie e il fatto drammatico è che hanno pienamente ragione: come dare loro torto: è proprio così che stanno le cose: non vale la pena scrivere cinquemila parole al giorno: è dannoso per la salute psichica e forse anche per quella fisica dato che poi sei costretto a ridurti il fegato come un colabrodo tracannando alcolici, il che spiega perché molti grandi scrittori sono o sono stati degli alcolizzati inveterati, e io ho sempre pensato che se l’alcool anestetizza la mente, non c’è motivo di tormentare il cervello più di tanto, rendendolo così inerme soltanto per non dovere fare i conti con i pensieri gravosi che partorisce, e io a quel tempo non facevo che pensare: e più pensavo a scrivere e più non mi riusciva di buttar giù niente proprio perché tutto quello che mi baluginava nella mente viaggiava a una velocità talmente sostenuta che era impossibile acciuffarlo con le parole, fissarlo su un foglio, quando per mia fortuna riuscivo a rimediare carta e penna.

Vi sono posti, luoghi e paesi di cui conservo un labile ricordo e mi dispiace davvero tanto non ricordarmeli, non riuscire in qualche modo a visualizzarli, sì da poterli descrivere, raccontare, ma purtroppo son così fatto, credo, o penso che il mio cervello non sia propriamente perfetto, e di sicuro non stiamo parlando del cervello di un genio dato che a scuola andavo maluccio in quasi tutte le materie e quando qualcuno mi chiedeva perché avessi scelto proprio una scuola professionale io rispondevo sempre che non lo sapevo, perché non lo sapevo proprio il perché, ma nonostante questo ero in difficoltà anche alla scuola professionale, dato che allora non mi era ben chiaro cosa volessi fare, cosa era giusto per me e se c’era davvero qualcosa che mi andasse veramente bene, a parte cercare di diventare uno scrittore, cosa che mandava letteralmente in solluchero il mio vecchio professore di italiano, un tipo strambo, a dir poco, con gli occhiali sempre unti e appannati che gli scivolavano continuamente sul naso (costringendolo ogni volta a tirarseli su con un dito) e questo succedeva ogni due maledetti minuti e nessuno di noi, seduti ai banchi, aveva mai capito perché portasse proprio quegli occhiali del cazzo, probabilmente fuori misura, per lui, con le lenti spesse e pesanti, dentro cui intravedevi due occhi enormi e malformi, prima che gli ricadessero di nuovo sul naso e allora ecco che gli occhi tornavano alle dimensioni normali, ed erano due occhietti, in realtà, inespressivi, verdognoli come quelli dei gatti, ma nel complesso il professor Polletti, a dispetto del cognome, era del tutto simile a un gattino indifeso, perché non osava mai imporre la sua autorità, anzi, subiva con un’alzata di spalle quella dei bulli della classe, tra i quali non figuravo di certo io che passavo le ore a cercare di scacciare i cattivi pensieri, che sopraggiungevano sempre a quelle ore del giorno, cioè quando mi trovavo sui banchi di scuola; ma quelli sono stati per me anni tristi ed è una fortuna che io non ricordi un bel niente di quel periodo, a parte appunto il professor Polletti e i suoi occhiali cadenti e le sue assurde smorfie quando gli dicevo che avrei voluto diventare un grande scrittore, e lui, che li conosceva tutti, gli scrittori, viventi e non, mi domandava a chi mi ispiravo, e me lo chiedeva sorridendo, per irridermi, e io gli rispondevo sempre che non lo sapevo, che non stavo imitando nessuno perché leggevo assai poco, pochissimo, ma che comunque quello di diventare uno scrittore era uno dei miei più grandi desideri, e così lui ridacchiava, tirandosi su gli occhiali sul naso, e mi spiegava che non sarei mai riuscito a scrivere due righe decenti perché per diventare degli scrittori decenti bisognava leggere molto, informarsi, studiare e io ero un asino che non leggeva, non si informava e non aveva voglia di studiare; e su questo aveva ragione, porco cane, ma io avevo voglia di diventare uno scrittore comunque, perciò, siccome ero cocciuto proprio come un mulo, avevo cominciato a frequentare la biblioteca comunale e a leggere qualsiasi cosa mi capitasse a tiro: ore e ore, senza sapere nemmeno perché stessi leggendo quelle cose, di cui non capivo nulla, soltanto parole su parole mezze delle quali per me non avevano alcun senso, non avendo idea di cosa significassero, tipo “astruso”, “mefitico”, “madido”, tutti termini nuovi, mai sentiti prima, e allora, dopo un po’, mi era toccato ricorrere al vocabolario, ed era una pena cercarle una a una, una cosa orrenda da fare, da vomito, e mi veniva una rabbia tale, perché ero un idiota, un idiota totale, e poi ogni tanto mi capitava di ricercare tre, quattro volte la stessa parola, perché dopo due giorni mi ero scordato cosa volesse dire, e quando ritornavo alla pagina del vocabolario dove l’avevo vista la prima volta, mi veniva una gran voglia di sbattermelo in testa, quel vocabolario, e forte, magari dentro la scatola cranica succedeva qualcosa di sconvolgente, magari dandomi dei grandi colpi in testa a un certo punto sarei diventato un genio e, a proposito di sconvolgimenti celebrali, a cinque anni io avevo avuto le convulsioni, una crisi convulsiva, sì, devastante, febbre altissima, coi medici tutti convinti che per me non ci fosse più speranza, perché tutte quelle scariche elettriche, dicevano, mi avrebbero ridotto il cervello in pappa, “e suo figlio resterà deficiente”, avevano detto a mamma, ma mamma non ci credeva, non voleva crederci, perché che se ne sarebbe fatta di un figlio “deficiente”? Niente, proprio, così aveva pregato perché non diventassi “deficiente”, e in effetti le sue preghiere avevano avuto effetto, oppure era stato un caso, ma “deficiente” non lo ero diventato proprio, però qualcosa era successo, quei giorni, al mio cervello, un qualche scombussolamento celebrale, di sicuro, e poi le cose erano andate avanti ed eccomi qua, alle scuole superiori, con il professor Polletti che mi dava dell’asino, e forse ero un asino proprio come diceva lui.

Ricordo che non mi interessava tanto vivere, che vivevo tanto per vivere, cioè passando le giornate a bighellonare qua e là, vagando senza meta, di bar in bar, a leggermi i giornali perché quelli si mi interessavano, eccome, soprattutto la cronaca politica, di cui non capivo un accidenti, ma mi piaceva starmene lì, occupando un posto al tavolo, con un bicchiere di prosecco che mi faceva venire il voltastomaco e che ingurgitavo soltanto per stordirmi dacché lo usavo per lo più come anestetico naturale con il giornale davanti al naso per far passare i minuti e poi le ore che non passavano proprio più, del resto non avevo niente altro da fare che ordinare altri prosecchi, che il barista accompagnava sempre alla solita battuta del cazzo, sul genere: “abbiamo sete oggi, eh?”, cui avrei voluto rispondere alzandomi e rifilandogli un cazzotto sul naso, cosa che, per altro, non ho mai fatto perché mi mancava pure quello, sì, il coraggio per fare una cosa simile, e cioè alzami e suonargliele, e quindi io mi limitavo a sorridergli senza proferire parola e anzi continuando con la mia lettura come se niente fosse, anche se a un certo punto quelle piccole parole sulla carta cominciavano a mescolarsi, a sovrapporsi come, sì ci vedevo doppio insomma, ma andavo avanti a leggere lo stesso, come se stessi cercando di portare a termine un rituale magico, come se dovessi completare la mia giaculatoria entro pranzo, dato che erano quasi sempre le undici del mattino quando ordinavo prosecchi a ripetizione e perciò dovevo ancora mettere qualcosa sotto i denti, visto che al mattino saltavo completamente la colazione per via del rigurgito intestinale che mi provocava intensi conati di vomito cui seguiva una leggera vomitata giallognola, di bile, accompagnata da alti conati a vuoto…

Ma c’erano anche dei posti dove potevo leggere i giornali senza che qualcuno arrivasse al tavolo a rompermi i coglioni, perché mi alzavo e mi servivo da solo, al banco, e di solito dietro il bancone c’erano delle ragazze niente male che mi piacevano proprio ma probabilmente io non piacevo loro, oppure non mi capivano o mi capivano fin troppo bene… cioè, voglio dire: mi avevano letto da parte a parte, visto che chiacchieravano con tutti gli avventori tranne che con me; ma del resto, ripeto, io me ne stavo seduto in un angolo con il mio prosecco a leggere i giornali, da cima a fondo, e forse le ragazze non trovavano interessanti i tipi taciturni, ubriachi di primo mattino, che leggono i quotidiani in un angolo del bar, senza mostrare il benché minimo interesse a socializzare con il resto della clientela e avvicinandosi al bancone di tanto in tanto solo per ordinare un altro bicchiere, ma a me non andava proprio di conversare con quelle ragazze e men che meno con gli idioti, cui loro davano retta, tutti appoggiati al bancone, protesi in avanti, quasi fossero sempre sul punto di stampare loro un bacio sulle labbra, e quegli scemi non erano certo meglio di me, anzi, erano peggio, anche se probabilmente avevano un lavoro, loro, che io non avevo, ed erano lì a bere durante la pausa pranzo, però nessuno di loro leggeva i giornali, nessuno di loro pareva preoccupato di ciò che succedeva nel resto del mondo, come invece interessava a me, perché erano rozzi, gretti, insulsi e io lo capivo bene perché non avevano intenzione di diventare dei grandi scrittori, loro, e non sapevano che per diventarlo occorre leggere, leggere molto, come stavo facendo finalmente io.

Poc’anzi ho detto che non lavoravo ma è falso perché lavoravo, saltuariamente, ma lavoravo, e ho cambiato tanti di quei lavori che a fatica me li ricordo tutti, però la sostanza è una sola e cioè che non avevo voglia di lavorare, che non sopportavo l’idea di allontanarmi dal mio angolo e rinunciare alla lettura, perché avevo sperimentato che dopo il lavoro leggere era impossibile, che era difficile mettersi lì e concentrarsi sulla lettura: gli occhi mi si chiudevano dalla stanchezza e finivo sempre con l’addormentarmi, a volte mi succedeva persino al bar, dove in genere venivo svegliato da uno scossone datomi da qualcuno, che mandavo immediatamente a quel paese, coperto dalle risate degli altri beoni che solitamente assistevano alla scena da una certa distanza, e così cercavo di lavorare il meno possibile, perché il lavoro era soltanto una grande seccatura, per me, e una fregatura vera e propria, ma questo vale per tutti, credo, solo che la maggior parte della gente non ci pensa a questo fatto di lavorare per star meglio e poi sta peggio di prima perché si uccide a forza di lavorare e non si gode nulla; eppure è proprio per godersi qualcosa, dicono, che lavorano tanto, ma poi non hanno le forze per godersi qualcosa o andare da qualche parte perché appunto crollano dal sonno, sfiniti, e allora ecco dove sta la fregatura del lavoro: darsi delle arie quando quelle arie pesano più di mattoni di cemento armato che ti cadono sui piedi, e quindi io evitavo di rincorrere quelle gioie, la felicità, e cercavo di godermela la felicità, giorno dopo giorno, nella speranza di riuscire a iniziare un romanzo, che ancora non aveva né titolo né scaletta, ma il desiderio di scriverlo era forte, ed era davvero piacevole, per me, pensare di poter scrivere un romanzo mentre loro cercavano di raggiungere la loro felicità spaccandosi la schiena al lavoro, e so che questo non è un bel esempio, cioè il mio non lo era di sicuro, i padri costituenti non sarebbero stati fieri di gente come me, dato che avevano messo il lavoro al primo posto, ma io non avevo proprio tempo per lavorare e pensavo che il lavoro fosse solo una gran scocciatura, ecco.

Amavo o credevo di amare, allora, e forse da un certo punto di vista ci credo ancora, anche se crederci non basta, non basta mai; diciamo che non è sufficiente crederci, punto; però erano anni, quelli, in cui tutto sembrava molto più semplice e siccome io ero sempre brillo mi godevo la vita pensando che un giorno sarei diventato un grande scrittore e che da lì in poi sarei stato inseguito da orde di ragazze che, non so neanche oggi per quale motivo, avrebbero dovuto amare o semplicemente essere attratte da uno scrittore squattrinato, senza fissa dimora, completamente ubriaco da mane a sera, sboccato e per giunta poco virile, se non forse perché, animate dallo spirito delle crocerossine, avevano in testa di cambiarmi, di migliorarmi, ma io non avevo intenzione di cambiare, mi piacevo com’ero, a dire il vero, perché peggio ero meglio era, e volevo proprio sembrare il peggiore dei peggiori, il reietto, quello che la gente segnava con il dito, e difatti i miei parenti questo facevano, mi davano del perdigiorno, del buono a nulla, dell’incapace, dell’inetto e via discorrendo, e più me ne dicevano e più io andavo fiero di me stesso, di essere un problema per tutti, un caso da risolve e forse, forse, sì, come dicevo, forse questo poteva attrarre l’universo femminile, perché non ero scontato, banale e avevo qualcosa da dire, anche se spesso quello che mi usciva di bocca assomigliava più a una serie di bestemmie e turpiloqui che un discorso sensato, sì perché non ero mai stato un gran parlatore, mi impappinavo spesso, perché ero timido, impacciato, soprattutto di fronte alle ragazze, che coglievano il mio imbarazzo portandosi una mano davanti alla bocca e ridendo di me; ma a me andava bene pure quello, che se la ridessero, perché in fin dei conti io ero felice così, e non chiedevo di essere trattato altrimenti.

Dipingevo quadri obbrobriosi nel garage di mio padre appoggiando tavole di faesite a terra e versandoci sopra della vernice acrilica che compravo al centro commerciale su consiglio di un pittore che avevo conosciuto quasi per caso all’università e con il quale passavo gran parte dei pomeriggi a bere birra scadente in lattina mentre le sessioni di esami andavano avanti e io, che dovevo frequentare le lezioni, perdevo tempo a seguire i consigli di questo fallito, verso il quale avevo una sorta di ammirazione, perché era il classico tipo con il quale nessuno avrebbe voluto scambiare due parole, quindi era la persona perfetta per me, e difatti non me ne staccavo mai, sebbene Sabrina la ragazza con cui avevo iniziato l’università e della quale ero vagamente attratto avesse cercato in ogni modo di allontanarmi da lui, che considerava un “soggetto losco e puzzolente” che aveva una pessima influenza su di me e che mi stava portando sulla “cattiva strada”; a parte che io non ho mai capito quale fosse questa “cattiva strada”, e anche adesso, che ci rifletto, mi risulta difficile pensare a qualcosa come una “cattiva strada”, perché le strade sono strade punto e basta, ognuno si sceglie la sua e se la sua è quella sbagliata sono cavoli suoi e basta e gli altri non dovrebbero metterci becco, ma io non avevo strade da seguire, men che meno buone o “cattive”, e certo non mi curavo molto dell’opinione di Sabrina, anche se lei era sempre molto buona e dolce con me, mi prestava persino del denaro, mi comprava i libri, mi accompagnava in copisteria per fotocopiare i suoi appunti, ma io non ero neanche quel genere di ragazzo che si può definire riconoscente, perché io non le chiedevo nulla, faceva tutto lei, infatti non le avevo affatto domandato cosa ne pensasse di Aldo (così si chiamava il pittore bohémien), ma lei doveva sempre dire la sua su tutto, e così aveva cercato di allontanarmi da lui; poi proprio un bel pomeriggio Aldo è morto, e non è vero che se ne vanno sempre i migliori; anche i peggiori se ne vanno, prima o poi, purtroppo: è morto mentre chiedeva l’elemosina in Campo Santa Margherita: qualcuno, che forse neanche conosceva, gli aveva offerto qualcosa da bere, e in quel bicchiere ci aveva messo dentro del veleno per topi, credo, o qualcosa di simile perché questa società è molto brava a prendersela con i deboli: i deboli fanno gola, sono prede facili, infatti vengono incolpati di tutto, anche di quello di cui non sono affatto colpevoli, come vivere, ecco, e dare fastidio ai commercianti poggiando i propri cenci a terra davanti ai negozi, ecco, o domandare con insistenza cinquanta centesimi, ecco, ai ricchi vacanzieri che li schivano come fossero cacche di cane, ecco…

Io non ne avevo fatto una tragedia perché non ero abituato a fare tragedie di nessun tipo ma la cosa che mi aveva mandato fuori dei gangheri era aver saputo, proprio da Sabrina stessa, che aveva accolto la notizia come un sollievo o una sorta di liberazione; c’è sempre qualcuno sollevato dai decessi altrui, d’altronde: anche quando è morto Mussolini molti si sono sentiti come dire sollevati, perché la morte porta con sé sempre un po’ di passato, anche se il passato di Aldo era tutt’altra cosa, benché non sappia definire cosa, ma a me piaceva e lo trovavo interessante mentre a Sabrina sembrava stupido e diceva che odorava di sterco e forse c’aveva anche ragione, solo che io pensavo fosse un artista, difatti mi aveva detto che lo era, ma dopo la sua morte avevo scoperto che non lo era affatto, che mi aveva mentito, che non aveva mai dipinto nessun quadro e quelli che mi aveva mostrato non erano stati realizzati da lui ma da uno dei suoi otto fratelli, tutti matti da legare (sparpagliati in ogni angolo del mondo), tranne uno, Alberigo, che viveva appunto a Venezia, assieme ad Aldo, anzi, era Aldo che viveva con lui, a casa sua, perché Aldo non se la poteva permettere una casa, o un appartamento, o quel cavolo che era, perché era un alcolizzato e un perdigiorno, una nullità, e insomma alla fine mi era toccato dar ragione a Sabrina, ma lei aveva sempre ragione, onestamente, anche se a me dispiaceva lo stesso per il povero Aldo, perché era buono e umile almeno con me, che non sono poi molto mesto di carattere, lo era sempre stato e quindi un po’ dovevo dare ragione a Sabrina e un po’ a me stesso, anche se era stato miseramente ingannato da Aldo, ma non mi importava.

Anche Sabrina, a modo suo, mi voleva bene, ne ero sicuro, e io ne volevo a lei, nella misura in cui si può voler bene a una ragazza molto carina come lo era lei, anche se ogni tanto mi stuzzicava, sì, insomma, si divertiva a provocarmi, benché io non avessi mai afferrato bene il motivo, però c’era un certo Toni, un amico d’infanzia con cui ne avevo combinate delle belle, che mi diceva “secondo me quella si bagna quando ti parla”; ma io ero un tipo ingenuo, allora, e non capivo cosa intendesse dire con “si bagna”, cioè, in un certo qual modo lo capivo anche, solo che ero troppo timido per rispondergli a tono, e così accoglievo quelle parole con un sorriso, ma lui mica si dava per vinto e insisteva, fino a che un giorno non mi erano girate le scatole e l’avevo preso a male parole, gli avevo detto di levarsi di torno, di non farsi più vedere né sentire, ché Sabrina era amica mia e basta e non c’era motivo alcuno per insistere con questa solfa, e, strano ma vero, quella è stata forse l’unica volta in cui avevo saputo impormi per davvero, e la cosa aveva fatto sentire bene, però a Sabrina non avevo mai raccontato tutto questo, anche perché me ne vergognavo profondamente, benché sapessi che non avrei dovuto affatto vergognarmene dato che il tutto era uscito dalla bocca di Toni, il mio amico deficiente, però, lo stesso, non me la sentivo proprio di raccontarle cosa mia aveva detto, anche perché poi sarei dovuto scendere nei particolari e… no, no, no, per carità del cielo, mai e poi mai avrei pronunciato quelle parole di fonte a Sabrina, benché lei fosse tutto meno che una ragazza pudica, anzi, me ne raccontava di ogni, anche di peggio, e, molto spesso, quando la ascoltavo, pensavo che doveva divertirsi proprio a stuzzicarmi, perché certe cose che mi raccontava erano spinte mica uno scherzo, quasi porno direi, scene che poi puntualmente mi sognavo di notte, con lei seminuda e io in piedi a guardarla con le guance paonazze, oh mio dio! Che sogni tremendi! Culminanti in risvegli umidi, causati da pullulazioni notturne senza freno; eppure lei sembrava non preoccuparsi troppo delle mie reazioni, che per sua fortuna o sfortuna non so, è da vedersi non arrivavano mai, perché, ripeto, io ero troppo timido e impacciato per affrontare conversazioni simili a viso aperto, e perciò mio limitavo ad assentire, cercando di non arrossire più del dovuto;con me non ci aveva mai provato, o almeno non apertamente, sì insomma diciamo che non aveva mai lanciato segnali in tal senso, anche se a dire il vero a quei tempi ero talmente rimbambito dal mio progetto di diventare uno scrittore che a mala pena riuscivo a rendermi conto di quello che mi succedeva intorno, infatti ero di una sbadataggine fuori misura, dimenticavo le cose, perdevo oggetti, scordavo i nomi, oh, be’ quelli anche adesso, non so perché, una persona mi dice come si chiama e dopo cinque secondi, giuro, cinque, io mi sono già scordato il suo nome, e da quel momento in poi quando la rincontro e la saluto spero sempre che quel nome mi ritorni in mente così, come per magia, ma la qual cosa non accade mai, e allora ci sono delle volte che faccio proprio brutte figure, figure barbine, e me ne vergogno profondamente, perché quell’altra persona si è data la pena di ricordare il mio nome, penso, mentre io non mi ricordo il suo nemmeno se mi sforzo, ed è per questo che un giorno mi ero persino preoccupato ed ero andato da una specie di psicologo e gli avevo chiesto come mai mi capitasse una cosa del genere, e, sempre se non ricordo male, lui mi aveva detto che avevo un certo deficit mnemonico, una cosa così, che, in effetti, riscontravo anche all’università, perché ricordavo poco o niente delle lezioni che ascoltavo, le rare volte in cui ci andavo, mentre Sabrina, per esempio, ricordava tutto, anche quando studiava, lei aveva una memoria fotografica, si figurava la pagina, mentre se ci provavo io, mi apparivano soltanto pensieri confusi, di me in qualche posto imprecisato, che ricordavo appena, oppure cose mescolate, sovrapposte, e sì, davvero, avevo questo problema con la memoria e ce l’ho ancora, anche se credo sia un po’ migliorato, però i nomi delle persone che incontro non me li ricordo proprio, neanche adesso, anche di gente importante, la cui conoscenza potrebbe anche cambiarmi la vita, eppure, non so, io me li dimentico lo stesso cinque secondi dopo, forse perché sono troppo concentrato sui tratti del volto, il movimento della labbra, quando qualcuno mi parla, forse è proprio per quello che non ricordo il nome ma la persona, quella sì, anche a distanza di tempo, anche se dovessi incontrarla di nuovo alla stazione centrale di Milano, per esempio, in mezzo a una selva di persone;

a me piaceva lei perché si dava delle inutili arie, mentre a gran parte delle ragazze che conoscevo anche se non molte, vista la mia timidezza non la sopportavano proprio e continuavano a chiedermi come fosse possibile che un sempliciotto come me se ne andasse in giro con una vamp del genere, e io rispondevo sempre loro in modo piccato, questo lo ricordo, ché loro non la conoscevano affatto, o per lo meno non la conoscevano quanto la conoscevo io e io ero sicuro di conoscerla abbastanza bene, benché non stessimo assieme, io e lei, ma praticamente era come se lo fossimo e difatti tutti pensavano che io e lei fossimo morosi, e molti me lo chiedevano, sussurrandomi “sei fortunato, con una sventola del genere”, e, ecco, “sventola” è una parola che non mi piace e non mi è mai piaciuta perché è sessista, classista e quant’altro, perché tende a ridurre la donna a un mero fattore estetico, come se essere una “sventola” fosse tutto quello che Sabrina rappresentava, ma non era così, e insomma, checché ne dicessero loro, io sapevo che era buona, generosa, di cuore e che in tutto quello che faceva ci metteva corpo e anima, però la gente è troppo abituata a giudicare le apparenze, penso io, l’idea che una dà di sé anche se non è propriamente quella che vorrebbe dare e, okay, sì, lo ammetto, Sabrina non si faceva mancare niente, vestiva sempre griffata, i capelli sistemati dal coiffeur, le borsette di Luis Vuitton eccetera, ma che vuol dire, poi, io non so, visto che suo padre era stato un calciatore professionista, aveva calcato i campi di mezza Italia e anche all’estero, e aveva guadagnato bene, anzi, benissimo, come del resto tutti i calciatori e ora poteva permettersi il lusso di mantenere sua figlia, regalandole qualsiasi cosa desiderasse, anche se Sabrina non era poi così piena di sé da pretendere chissà che, non era viziata, se è per quello, e nemmeno capricciosa e, d’accordo, lo ammetto, sì, se la tirava e è normale che alle altre ragazze questo fatto di tirarsela stava sul cazzo, mica sto qui a sindacare, io, però ne aveva ben donde, di tirarsela, intendo, ché se non se la tirava lei chi altro mai, ‘rcatroia.

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